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Per Porthos Edizioni: Il formaggio - 2a parte

Denominazione Origine Protetta nel caseario

Per Porthos Edizioni: Il formaggio - 2a parte

Denominazione Origine Protetta nel caseario

Questo articolo, scritto da Erasmo Gastaldello è stato pubblicato sulla rivista "Porthos" n° 9 - marzo 2002 - curata da Sandro Sangiorgi. Vengono "raccontati" alcuni cenni storici, produttivi e legislativi del formaggio.


La Denominazione di Origine Protetta nel comparto caseario italiano

Nel numero precedente avevamo intrapreso un viaggio nel mondo caseario e, dopo un breve ripasso storico ed un approfondimento sulle leggi di tutela, c’eravamo lasciati con questo quesito: possiamo considerare i formaggi D.O.P come i migliori nel mercato?
Nel nostro Paese sono stati recensiti più di 400 tipi di formaggi, ma “solamente” 30 di questi sono a Denominazione di Origine Protetta.
Nonostante ciò, i Consorzi di Tutela di questi 30 D.O.P. rappresentano il 44% della quantità di formaggi prodotti in Italia. Che cosa significa?

Il dato che emerge è che molti di questi 30 formaggi sono prodotti e venduti in quantità enormi, (al primo posto il Grana Padano, seguito in ordine decrescente da Parmigiano Reggiano, Gorgonzola, Pecorino Romano, Provolone Valpadana, Asiago, Mozzarella di Bufala Campana) perciò il ruolo più importante che la Denominazione riveste per loro riguarda soprattutto la salvaguardia dalle continue frodi che costantemente si verificano nel comparto e che chiaramente colpiscono maggiormente i prodotti più diffusi; per quanto riguarda la valorizzazione e la promozione invece, per questi formaggi si tratta di aspetti che assumono un’importanza secondaria poiché la loro fama è oramai consolidata anche all’estero.
Per contro, certi disciplinari che regolamentano la produzione di formaggi “minori”, nel senso quantitativo (Robiola di Roccaverano in primis), sono troppo permissivi e si verifica addirittura l’estremo opposto: la Denominazione favorisce anche il prodotto che in realtà ha meno affinità con le radici storiche “penalizzando” così i produttori che sono più legati alla tradizione, che magari hanno dei costi maggiori o delle rese inferiori nella produzione, e che conseguentemente sembrerebbero proporre un prodotto più costoso o, peggio ancora, un prodotto con uno “strano sapore autentico” oggi non più riconosciuto come tale dalla maggior parte dei consumatori.
Due situazioni agli antipodi quindi, dove nel primo caso troviamo una D.O.P. come quella del Provolone Valpadana che vede un prodotto storicamente meridionale tutelato invece in una zona molto lontana dal suo luogo di origine reale. Verso la fine dell’Ottocento, per avere più latte a disposizione molti casari del Sud si spostarono in Valpadana, ma i provoloni migliori vengono ancora oggi prodotti nel Mezzogiorno d’Italia.
Nel secondo caso invece, la Robiola di Roccaverano è storicamente prodotta con puro latte di capra (al massimo si poteva aggiungere un po’ di latte di pecora per produrre qualche formaggella in più), mentre il disciplinare della D.O.P. oggi permette la lavorazione anche con il latte vaccino, fissandone però un limite. Ah, meno male starete pensando…..e invece il limite massimo di latte vaccino utilizzabile è l’85%, che equivale praticamente alla totale snaturalizzazione del prodotto originario. Ad un certo punto, per salvare l’economia della zona (Alta Langa astigiana), verso la metà del secolo appena finito si permise al caseificio sociale questo tipo di produzione, ma anche oggi le migliori Robiole di Roccaverano sono ancora prodotte esclusivamente con latte caprino.

Emerge quindi chiaramente come, se da un lato l’ottenimento di una Denominazione di Origine ha contribuito in maniera determinante al successo del formaggio tutelato ed allo sviluppo dell’economia della zona interessata, dall’altro risulta invece evidente come ancora una volta si permettano enormi varianti o “scappatoie” a quelle che un tempo erano le reali caratteristiche del luogo e del prodotto a vantaggio di chi vuole e può produrre in quantità più che in qualità.

Mi riferisco anche al formaggio Asiago, originario nell’omonimo Altipiano, che oggi è prodotto senza dubbio in maggior quantità in territorio pianeggiante, o al Taleggio, che vede la sua area storica di produzione nelle piccole valli del bergamasco (dove spesso ancora matura in grotte naturali) e in una microzona in provincia di Treviso. Ma che cosa centra Treviso? Assolutamente niente e a conferma della mia teoria riporto la risposta che mi ha mandato tramite e-mail un responsabile del Consorzio di Tutela di questo formaggio: “Abbiamo ricevuto la sua richiesta. Il Veneto non è mai stato storicamente noto come zona di produzione di formaggio Taleggio. Solo al momento del riconoscimento di origine vi fu qualcuno che riuscì a dimostrare di aver prodotto formaggio nella provincia di Treviso. In seguito alcune aziende chiesero ed ottennero di produrlo. Col tempo però tutti rinunciarono per i motivi di cui sopra. Oggi esiste solo un piccolo produttore che peraltro fa stagionare il prodotto nella provincia di Bergamo. Distinti saluti.”
Molteplici sono quindi le “strane” realtà. Inoltre, purtroppo nelle D.O.P. non vi è quasi mai il riferimento alla razza autoctona di animale che deve dare il latte per quel determinato formaggio e quindi, quasi ovunque, abbiamo assistito anche alla scomparsa della “razza storica” a favore di una nuova “razza globale” molto più produttiva, sia essa caprina, bovina o pecorina.

Ma allora, dopo queste affermazioni, come possiamo rispondere al quesito iniziale?

Sicuramente le D.O.P. sono molto importanti, regolamentano tutto l’iter produttivo dei formaggi che ne fanno parte, li tutelano, ne favoriscono la diffusione ed hanno segnato una svolta nel panorama alimentare (ricordate che le prime D.O.C. del 1955 sono state la naturale conseguenza alla Convenzione di Stresa del 1951 ed alla legge n°125 del 1954, prima legge emessa in Italia a tutela di un comparto alimentare), ma, probabilmente come per il vino, sono state messe a punto dal mondo politico piuttosto che da quello produttivo. E qui sta il nocciolo della questione: che cosa sta succedendo agli altri 370 formaggi che non sono tutelati? Certamente non tutti, ma molti di loro meriterebbero i favori di una D.O.P., ma i piccoli produttori, degni rappresentanti di quel patrimonio di storia e cultura legato all’arte casearia, non possono certamente portare avanti da soli i lunghi e costosi iter burocratici necessari per l’ottenimento di una D.O.P.; le loro attenzioni sono tutte rivolte agli animali, ai pascoli, alla produzione, alle normative igieniche pressanti, alla stagionatura, alla vendita, ma trattandosi di piccole quantità (e quindi di piccoli valori monetari) il mondo politico è disinteressato.
Potrà forse anche sembrare un ragionamento troppo “puro”, ma la mia utopia è di vedere un giorno nascere un organismo che si impegni a creare e tutelare un marchio al di sopra delle parti, che abbia cioè come unico fine quello di valorizzare esclusivamente il “top” delle tradizioni e delle produzioni, si tratterebbe cioè di creare dei “cru” anche all’interno delle varie D.O.P.
Se tutto ciò può sembrare impossibile, quello che invece sarebbe auspicabile e sicuramente realizzabile, (in Francia lo stanno già facendo) sarebbe almeno una rivisitazione, chiaramente in senso restrittivo, dei vari disciplinari già esistenti.
Finora, in Italia l’unica iniziativa di questo tipo si deve al Consorzio di Tutela del Parmigiano Reggiano, che ha modificato il proprio disciplinare nel mese di luglio dello scorso anno, “restringendo” il limite minimo della distanza dei pascoli dalle arterie stradali principali e fissandolo ora a 180 metri.
Sono andato a “spulciare” tra i disciplinari delle 30 Denominazioni di Origine italiane e, premesso che, chiaramente, per ognuno di questi formaggi esiste un articolo che delimita con esattezza l’area di produzione, ho estrapolato alcuni passaggi che ritengo significativi ai fini della qualità dei formaggi interessati:

1. Mozzarella di bufala campana

“…..Art. 3 - La "Mozzarella di bufala campana" è prodotta esclusivamente con latte di bufala intero, proveniente da bufale allevate nella zona di cui all'art. 2 e ottenuta nel rispetto di apposite prescrizioni relative all'allevamento e al processo tecnologico, in quanto rispondenti allo standard produttivo seguente:
a) Gli allevamenti bufalini dai quali deriva il latte devono essere strutturati secondo gli usi locali con animali originari della zona di razza mediterranea, che devono risultare iscritti all'apposita anagrafe.
b) II latte deve essere consegnato al caseificio entro la sedicesima ora dalla mungitura, possedere titolo in grasso minimo del 7% e essere opportunamente filtrato e riscaldato ad una temperatura variante da 33°C a 36°C. …..”

In questo caso, innanzitutto dobbiamo fare attenzione alla denominazione: solo il prodotto posto in vendita con la dicitura completa “Mozzarella di bufala campana” è quello originale, mentre il prodotto venduto come “Mozzarella di bufala” è prodotto in qualsiasi altra parte d’Italia, con latte di bufala proveniente da allevamenti distribuiti in altre zone all’infuori da quella tutelata e, ancora, il prodotto venduto come “Mozzarella con latte di bufala” è sempre miscelato con latte di mucca in proporzioni variabili. Sappiate che esiste una legge che vieta la vendita dei latticini sfusi, cioè privi dell’incarto recante la tipologia del prodotto, gli ingredienti e l’azienda produttrice con il relativo indirizzo, inoltre ogni prodotto D.O.P. reca anche il marchio che ne attesta l’originalità. Rifiutandovi, quindi, di acquistare il prodotto sfuso vi starete già tutelando nei confronti di una presunta truffa.
Trovo poi fondamentale il riferimento alla razza animale iscritta all’apposita anagrafe. Ciò è garanzia anche di un latte certificato in quanto a reale provenienza e salubrità. Si ha infatti il costante monitoraggio dello stato di salute dei capi di bestiame interessati alla produzione.
Infine, il punto b) citando il titolo minimo di grasso, fissa di fatto il livello qualitativo del latte, conseguenza, ancora una volta, di un animale sano e alimentato in maniera più che corretta, mentre la temperatura di lavorazione iniziale ci dice con certezza latte crudo, anche se poi i caseifici industriali hanno delle deroghe per lavorare il prodotto partendo dallo stesso latte, ma utilizzando una breve pastorizzazione per affrontare con maggiore costanza il mercato estero. (Su questo aspetto, però, non sono d’accordo).

2. Parmigiano Reggiano

..…"Formaggio semigrasso, a pasta dura, cotta ed a lenta maturazione, prodotto con coagulo ad acidità di fermentazione dal latte di vacca proveniente da animali, in genere a periodo di lattazione stagionale, la cui alimentazione base è costituita da foraggi di prato polifita o di medicaio.
Viene impiegato il latte delle mungiture della sera e del mattino, riposato e parzialmente scremato per affioramento. La cagliatura è effettuata con caglio di vitello.
Non è ammesso l'impiego di sostanze antifermentative……”

Sull’utilizzo improprio di questa denominazione si sono scritte e dette migliaia di parole; il Parmigiano Reggiano è infatti al primo posto tra le “vittime” delle truffe nel comparto caseario ed ora si sta difendendo, per fortuna con successo, anche contro l’abusato termine Parmesan utilizzato per frodare i consumatori nel mondo e di cui avrete certamente già sentito qualcosa.
Ritornando poi al disciplinare, c’è l’importante aspetto dei tipi di foraggi e lo straordinario divieto relativo all’uso di sostanze antifermentative: ciò in pratica significa che non si possono assolutamente dare alle mucche mangimi insilati che causerebbero (tra le altre cose) gravi problemi di gonfiore tardivo. Lo stesso divieto non è invece previsto dal disciplinare del Grana Padano.

3. Valle d’Aosta Fromadzo

“…..a) l'alimentazione delle bovine da cui deriva il latte deve essere costituita prevalentemente da foraggi locali freschi o affienati;
b) per il formaggio di tipologia semi-grassa il latte viene rilasciato riposare in relazione alle condizioni ambientali per un periodo variabile da 12 a 24 ore. Per il formaggio di tipologia a basso contenuto di grasso il latte viene lasciato riposare, sempre in relazione alle condizioni ambientali, per un periodo da 24 a 36 ore. Il latte deve essere quindi coagulato ad una temperatura di 34-36°C sfruttando lo sviluppo spontaneo della microflora casearia con l'eventuale inoculo di fermenti lattici naturali ed autoctoni della zona di produzione;…..)

Anche in questo caso c’è il preciso riferimento ai foraggi freschi o affienati e non è quindi previsto il mangime, la bassa temperatura di coagulazione permette di preservare al massimo le caratteristiche microbiologiche del latte di partenza, inoltre mi piace la particolare attenzione agli eventuali fermenti lattici che devono assolutamente provenire dalla zona di produzione. In questo modo viene realmente preservata la tipologia di gusto autoctono; oggi infatti esistono delle aziende specializzate nella produzione di fermenti lattici da aggiungere nelle varie lavorazioni, ma il loro utilizzo stravolge la flora microbica tipica; per farvi un esempio, sarebbe come se un produttore di dolci da forno utilizzasse un lievito madre diverso dal solito, che si è creato nel tempo e che sarà assolutamente unico solamente fino a quando non lo trasporterà in un altro locale. L’utilizzo di un nuovo lievito, sebbene venissero mantenuti gli standard produttivi abituali, porterebbe alla produzione del solito dolce, ma con un gusto differente; identica situazione si verifica con il formaggio.

4. Ragusano

“…..Art. 3 - Il formaggio "Ragusano" è prodotto esclusivamente con latte di vacca intero, crudo, proveniente da allevamenti ubicati nella zona di cui all'art. 2 ed ottenuto nel rispetto di apposite prescrizioni relative all'allevamento e al processo di ottenimento, in quanto rispondenti allo standard produttivo seguente:
a) l'alimentazione delle bovine da cui deriva il latte deve essere costituita prevalentemente da essenze spontanee ed erbai dell'altopiano Ibleo, eventualmente affienati;
b) il latte di una o più mungiture deve essere coagulato alla temperatura di 34°C, con oscillazione in più o in meno non superiore ai 3°C, sfruttando lo sviluppo spontaneo della microflora casearia;

Attrezzature storiche: tina di legno, bastone di legno "rotula", contenitore di rame stagnato di varie dimensioni "iaruozzu", contenitore di legno "pisaquagniu" (pesa caglio), contenitore in creta per conservare il caglio "quagnialuoru", contenitore di legno per la formatura dei formaggi "mastredda", piccolo tino di legno o rame stagnato per filare "staccio", bastone di legno "manovella", materiale in legno per dare forma al formaggio "muolitu", tavolette di legno "cugni", formetta di legno per la marchiatura "marchiu". Vasche di cemento per la salamoia. Fuoco diretto legna-gas.
Locali di stagionatura: vengono detti "maizzè", locali freschi, umidi e ventilati a volte "interrati", si riscontrano inoltre cantine e grotte naturali con pareti geologiacamente naturali dove i formaggi a coppia vengono appesi a "cavallo" di una trave di legno legati con funi di "liama" o corde di "cannu", di "zammarra" o di cotone. Si riscontrano inoltre impalcature, scaffali ed attrezzi in legno o altro materiale vegetale per la pulizia e la manipolazione del formaggio durante la maturazione e stagionatura…..)
Per questo formaggio, oltre agli animali, ai pascoli ed al latte crudo, vengono addirittura preservate le attrezzature storiche ed i locali di stagionatura; non si tratta di conservare soltanto tradizioni, è infatti incredibile quello che succede quando, nonostante si parta da un latte eccezionale, si passa poi a lavorarlo con attrezzi completamente di acciaio ed in situazioni quasi “sterili” dal punto di vista igienico: tutta la microflora nobile ed autoctona viene distrutta. Questi aspetti – attrezzatura e locali di stagionatura – assumono quindi senza alcun dubbio un’importanza davvero straordinaria ai fini della qualità finale del prodotto interessato.

5. Pecorino Romano
(….. Il formaggio, a pasta dura e cotta, "Pecorino romano" è prodotto esclusivamente con latte fresco di pecora intero, proveniente da allevamenti ubicati nella zona di cui all'art. 1 ed ottenuto nel rispetto di apposite prescrizioni relative al processo di ottenimento, in quanto rispondenti allo standard produttivo seguente:
a) il latte, eventualmente inoculato con colture di fermenti lattici naturali ed autoctoni dell'area di produzione, deve essere coagulato con caglio di agnello in pasta proveniente esclusivamente da animati allevati nella medesima zona di produzione;…..)

In questo caso, focalizziamo l’attenzione sul tipo di caglio, che è il prodotto necessario alla coagulazione del latte di partenza: viene precisato il caglio animale, quindi non chimico; di agnello, perché ogni razza di animale dà un risultato diverso; in pasta, perché anche questo aspetto è responsabile del sapore finale ed infine la provenienza del caglio che deve essere da animali allevati nella medesima zona di produzione, ad ulteriore garanzia di originalità preservata.

6. Fontina

(…..Formaggio grasso a pasta semicotta, fabbricato con latte intero di vacca di razza valdostana, alimentata prevalentemente con foraggio verde nel periodo estivo e con fieno locale nel resto dell’anno.
Il latte, proveniente da una sola mungitura, ad acidità naturale di fermentazione, viene lavorato entro due ore dalla mungitura e non deve avere subito, prima della coagulazione, riscaldamento a temperatura
superiore ai 36°C. Per farlo coagulare si utilizza caglio di vitello lattante, anche preparato direttamente dal casaro.
La salatura è effettuata a secco, con tecnica caratteristica. Periodo medio di maturazione: tre mesi; temperatura: 6-10°C e, comunque, non oltre i 12°C; umidità: 90% o saturazione, ottenute per naturali condizioni di casera…..)

Ecco un’altra realtà molto seria: c’è il riferimento alla razza animale, all’alimentazione, al latte crudo, all’acidità naturale di fermentazione, al caglio, all’umidità dei locali di stagionatura che deve essere naturale e non forzata (la maggior parte di questi locali sono delle grotte naturali o delle vecchie miniere abbandonate di cui è ricca la Valle d’Aosta) e, infine, trovo straordinario l’obbligo di trasformare il latte in formaggio entro le due ore dalla mungitura. Quest’ultimo fattore è paragonabile ad uno scrigno di tesori in quanto, oltre a garantire l’integrità del latte e la sua sicura provenienza (due ore non permettono certo grandi spostamenti), implica la costante presenza del casaro anche durante gli alpeggi estivi, contribuendo così in maniera esemplare alla salvaguardia di fattori di eccezionale importanza quali l’uomo, il territorio, le tradizioni.

A questo punto, dopo avere analizzato e sottolineato quelli che potrebbero diventare i fattori chiave della stesura di un mio ipotetico disciplinare relativo ai “cru” di cui già vi ho accennato prima, vorrei per ultima cosa stimolare provocatoriamente una situazione che dovrebbe precedere ogni futuristico ottimismo: si potrebbe, e dovrebbe, iniziare a ripristinare le razze animali autoctone, fortunatamente non ancora del tutto estinte; certo, questi animali hanno la “grave colpa” di essere meno produttivi, di amare il libero pascolo al posto dei mangimi, ecc…, ma sarebbero il primo autentico legame con la storia e l’ambiente di produzione e cioè con due fattori che le varie commissioni ritengono fondamentali ai fini dell’assegnazione di una Denominazione di Origine Protetta.
Credo comunque che presto qualcuno dovrà incominciare ad interessarsi di questi aspetti perché il consumatore appassionato si è innamorato delle realtà minori, ha capito che dove c’è il latte crudo alla partenza i risultati sono estremamente più entusiasmanti ed ha anche capito che di latte crudo non si muore, come invece volevano farci credere…ma di questo vi parlerò sul prossimo numero. A presto.

Erasmo Gastaldello

Foto di PublicDomainPictures da Pixabay
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