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"I formaggi della nostra provincia" per l'Accademia Italiana della Cucina - Delegazione Alto Vicentino -

I formaggi della nostra provincia

Questo articolo, scritto da Erasmo Gastaldello è stato pubblicato sul libro "Non solo baccalà" - edito dall'Accademia Italiana della Cucina - Delegazione Alto Vicentino - novembre 2003 -


...Sono al lavoro, nel negozio di famiglia a Marostica, attorniato da formaggi di ogni tipo: morbidi, stagionati, erborinati, dolci, piccanti, erbacei, floreali, fruttati, piccoli e grandi, italiani e stranieri. Sto riflettendo su di essi, li sto guardando, annusando, accarezzando, ma ecco il telefono che squilla e mi riporta istantaneamente alla realtà. E quale realtà! Il notaio Rizzi, Accademico della Cucina Italiana, mi chiama per “obbligarmi elegantemente” a scrivere di formaggi vicentini. Che dire, accetto con onore e con la speranza di essere all’altezza delle vostre attese, sempre cariche di gustose emozioni...

Formaggi della nostra provincia, quindi, che troppo spesso rischiamo di non considerare perché “...tanto, cosa vuoi che ci sia qui da noi, c’è l’Asiago e basta! Guarda invece le altre regioni che ricchezza di proposte che hanno...”, questo ci sentiamo ripetere molte volte quando affrontiamo l’argomento.
Ebbene sì, questa mania di “esterofilia” che ha imperversato per anni, ha lasciato il segno anche da noi, ma non è esattamente sempre così.
Certo, l’Asiago la fa da padrone, è prodotto in quantità enormi ed ha conquistato il 5° posto in Italia in quanto a consumi, ma anche a volere rimanere tra i colossi, non dimentichiamoci che nella nostra provincia si producono anche Grana Padano e Provolone Valpadana, ben tre formaggi, quindi, dei trenta a Denominazione di Origine Protetta tutelati nel nostro Paese.
E proprio perché si tratta di enormi produzioni, per una volta tanto vorrei lasciarle in secondo piano, cercando altresì di approfondire le molteplici realtà cosiddette minori che ci attorniano senza essere invadenti e che molto spesso celano interessantissime caratteristiche organolettiche e sono frutto di importanti storie umane.
Geograficamente, la provincia di Vicenza si estende su un’area di 2.772 kmq, costituita in massima parte dalla zona collinare e montana delle Prealpi; la parte settentrionale dell’area interessata è prevalentemente montuosa e raggruppa a Ovest le Piccole Dolomiti, con il gruppo del Pasubio e del Carega le cui cime superano i 2000 m., a Nord l’Altopiano di Asiago, con la sua importante realtà di alpeggi e ad Est il Monte Grappa, i cui pascoli sono rimasti una testimonianza concreta di biodiversità vegetale.
Da queste splendide montagne, ritornando verso Sud, ci si lascia alle spalle la fascia collinare Pedemontana e, attraversando l’area pianeggiante, si giunge alla dorsale dei Colli Berici.
Nonostante chi arrivi nella nostra provincia utilizzando l’autostrada o le altre tratte principali si faccia un’idea di un’area notevolmente industrializzata, il nostro territorio è uno “scrigno contenente” un’enormità di aziende agricole che si dedicano all’allevamento di animali da latte. Osservando i dati ISTAT relativi al “Censimento generale dell’agricoltura. Anno 2000”, ho constatato quanto segue: la provincia di Vicenza ha un patrimonio di ben 4.415 aziende con bovini per un totale di 166.360 capi, 57.575 dei quali sono vacche; 478 aziende con caprini per un totale di 3.074 capi; 236 aziende con ovini per un totale di 6.087 capi ed infine 1 azienda con bufalini per un totale di 3 capi.
Possiamo sicuramente affermare che nella nostra provincia non manca certamente il latte da destinare alla trasformazione casearia e tutto ciò oggi è la conseguenza di una tradizione millenaria.
La storia dei nostri formaggi, infatti, si perde nella notte dei tempi; già prima di Cristo, alcuni scrittori greci e latini citarono la produzione casearia veneta, descrivendo l'arte della pastorizia, e attorno all'anno Mille si incomincia addirittura a parlare dei formaggi dell'Altopiano di Asiago. In quei tempi, la nostra zona era sotto il dominio dei vescovi e dei feudatari di Padova ai quali i montanari pagavano dazi e tributi con forme di formaggio. Si trattava di un formaggio duro, prodotto esclusivamente con latte di pecora, animale all'epoca presente in notevole quantità, tant'è che si racconta che nell’Altopiano di Asiago ci fossero più pecore che cristiani. Un’altra testimonianza del ‘500 ad opera dello storico poeta Ortensio Lando recita “...quei pecorini che fanno li montanari di certe montagne sovra Schio...”. Appare quindi evidente come i ricchi pascoli montani della nostra provincia potessero assicurare un’alimentazione abbondante capace di fornire l’energia necessaria ad allevare un notevole numero di animali che, oltre al latte ed ai formaggi dovevano assicurare anche pelli, lana e carne.
A conferma di ciò, durante il dominio della Serenissima, Asiago era nominata anche come sede di un’importante fiera di lane e formaggi. Non è quindi sicuramente casuale la presenza di grandi insediamenti industriali per la lavorazione di filati tutt’oggi presente nell’area dell’Alto Vicentino.
Tuttavia, fu proprio la Serenissima a dare inizio al processo di sostituzione delle pecore, con animali bovini. Venezia emise, infatti, alcune leggi, sembra anche per salvaguardare i boschi fonti di materia prima per le sue navi, che costrinsero i montanari ad allevare animali meno distruttivi.
Anche se la sostituzione degli animali si dimostrò alla fine più redditizia, la fase di adattamento dell'agricoltura e della zootecnia montana durò alcuni secoli, infatti, fino al XIX° secolo, il formaggio Asiago veniva chiamato "pegorin" (pecorino), termine dialettale ancora in voga tra i vecchi montanari dell'Altopiano e che oggi tende ad essere associato alle note piccanti di alcuni formaggi stagionati.
Con la Grande Guerra molte famiglie dovettero abbandonare le loro abitazioni ed i loro pascoli montani per cercare rifugio in pianura ed iniziando così anche a diffondere forme di allevamento a carattere maggiormente stanziale.
Ad ogni modo, tutti noi abbiamo ben chiaro il nostro attaccamento alle tradizioni e, in parte dovuto a questo aspetto, per cui le famiglie di allevatori non vedevano l’ora di ritornare sui loro luoghi di origine, in parte per la riconosciuta qualità dei pascoli montani, tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale la nostra provincia è stata particolarmente interessata dalla transumanza bovina veneta.
Effettivamente, ancora oggi ci capita, all’inizio di giugno o alla fine di settembre, di incorrere in qualche grosso gruppo di animali che invadono la strada e ci stordiscono piacevolmente con il loro scampanio. Ci sembrano visioni d’altri tempi, magari immagini “fuggite” dalle pellicole di Olmi, o ancora situazioni che portano i nostri ricordi ai racconti fiabeschi con i quali i nostri nonni riuscivano a farci rimanere a bocca aperta e subito esclamiamo “...guarda, stanno facendo la transumanza...” anche se in realtà quello che oggi noi vediamo è il carico o lo scarico a piedi delle malghe che qualche azienda della Pedemontana vicentina ancora effettua.
La transumanza vera e propria era una sorta di presepio vivente che attraversava tutta la nostra provincia ed aveva per attori intere famiglie che si spostavano a svernare verso il mare e le foci dei fiumi, alla ricerca di luoghi dove le temperature fossero meno rigide.
Assistere al passaggio di quelle lunghe colonne era una pausa festosa e, assieme a uomini, donne e bambini, c’erano sì vacche, manze e vitelli, ma anche cani, gatti, maiali, cavalli con al loro traino carretti pieni dei pochi beni di famiglia o utilizzati per il trasporto con il basto e ancora galline, tacchini, oche, anatre, quasi a rappresentare una sorta di zoo di campagna, colorato e chiassoso.
Inoltre, gli “attori” della transumanza percorrevano il loro tragitto in una naturale euritmia con gli abitanti dei luoghi attraversati, poiché scambiavano, barattavano, un pò di erba da pascolare o un pò di paglia per improvvisarvi un giaciglio con i prodotti che avevano a disposizione e cioè il latte, il burro, la ricotta ed il formaggio.
Già, il formaggio, alimento di straordinaria importanza rimasto per troppi anni relegato ad una condizione di produzione e conseguente consumo familiare, vissuto come necessità primaria più che come raffinatezza, finché, qualche anno fa prende il via un magico risveglio. Ci si accorge di trovarci di fronte ad un alimento eccezionale, che qualche altro Paese (Francia in primis) ha ben capito di valorizzare e si incomincia ad utilizzarlo come pasto principale anziché relegarlo alla fine di tutto, significativo a tal proposito è il noto proverbio “a boca no a xé straca se no a sà de vaca”.
Si innesta quindi un meccanismo inarrestabile che porta il formaggio a spuntare prezzi impensabili fino a pochi anni prima, lo colloca sulle migliori tavole, nelle migliori occasioni e, conseguentemente a ciò, ridona soprattutto dignità a quelle persone che ad esso dedicano la loro esistenza.
Si diffonde quindi anche nella nostra provincia l’idea di preferire la conduzione di una piccola o media azienda agricola di allevamento di animali da latte, con la conseguente produzione di formaggi, all’ipotesi di finire a lavorare in fabbrica, dietro ad una scrivania, ecc., aspetti questi ultimi che, nella provincia di Vicenza come nelle altre province d’Italia, avevano portato per anni ad un abbandono delle attività agricole con il conseguente degrado del territorio agricolo e pascolativo e la perdita quasi totale delle tradizioni di famiglia.
Di fatto oggi la maggior parte delle aziende agricole che trasformano il formaggio nella nostra provincia sono aziende giovani, sia riguardo all’anno di inizio di attività, sia riguardo all’età media di chi le gestisce, altro aspetto molto importante.
Nel sito internet della provincia di Vicenza, a proposito di agricoltura si legge:
“Nel settore agricolo il progresso delle tecniche e lo sviluppo degli altri comparti produttivi hanno determinato un notevolissimo salto di qualità. Negli ultimi anni sono stati raggiunti risultati di indubbio livello, principalmente per l'allevamento del bestiame, per le produzioni lattiero casearie...” e ancora “...Crescente l’affermazione dei formaggi vicentini tipici...”
Probabilmente ora vi aspetterete da me che incominci anche a parlarvi di formaggio vero e proprio, ma prima devo chiedervi ancora un attimino di pazienza: intendo descrivere alcune differenze “tecniche” esistenti all’interno del mondo caseario che sono particolarmente importanti ai fini qualitativi e descrittivi di ogni determinato formaggio.
I primi fondamentali aspetti da considerare sono il tipo di allevamento, la razza dell’animale, il tipo di alimentazione e la qualità del latte che ne deriva. Per non rischiare di tediarvi troppo con questi aspetti, diamo quindi per scontato di trovarci davanti ad un’ottima qualità di latte pronto per passare alla caseificazione.
Quando il latte esce dalla mammella è naturalmente sterile ed è quindi di fondamentale importanza curare la massima igiene di tutte le attrezzature con le quali il liquido va a contatto. Alcuni produttori scelgono di filtrare il latte prima di lavorarlo, altri di refrigerarlo se non possono lavorarlo subito, alcuni di termizzarlo e altri ancora di pastorizzarlo, mentre qualcuno è addirittura attrezzato per convogliare il latte direttamente in caldaia senza nessun altro passaggio.
Potremo quindi avere dei formaggi lavorati “a latte crudo” se lo stesso non viene sottoposto ad alcun trattamento termico e formaggi “a latte pastorizzato” in caso contrario; la pastorizzazione prevede di portare il latte ad una temperatura di circa 72 gradi per almeno 15 secondi mentre la termizzazione prevede di tenere il latte ad una temperatura più bassa, ma per un tempo più prolungato. L’innalzamento della temperatura del latte ha lo scopo di eliminare la flora batterica naturalmente presente e che deve essere poi comunque ripristinata attraverso l’aggiunta di fermenti e di microrganismi.
Il latte può essere impiegato intero o parzialmente scremato, di una o due mungiture e una volta posto nella caldaia avrà bisogno del caglio perché si formi la cagliata. Il caglio è formato da enzimi che hanno proprietà coagulanti e può essere liquido in polvere o in pasta, a seconda del tipo di formaggio che si vuole ottenere. Il caglio può essere chimico, animale e vegetale: quello chimico viene prodotto da industrie specializzate, quello animale può essere prodotto anche direttamente dai pastori e si ottiene tramite la macerazione di una parte dell’intestino, chiamata abomaso, di animali lattanti (vaccini, caprini od ovini). Il caglio vegetale, invece, si ricava dai fiori del cardo, o carciofo selvatico, dal latte di fico o infine da un fungo, il cui nome scientifico è “Rhizamucor miehei”.
Si inizia quindi la cottura in caldaia e una volta raggiunta la temperatura di circa 37 gradi il latte incomincia a cagliare. Una volta formata la cagliata, bisognerà romperla perché possa uscire la parte di siero. Per romperla si utilizzano degli attrezzi chiamati “spino” o “lira” in riferimento alla loro forma; a seconda dell’attrezzo utilizzato si romperà la cagliata in granuli piuttosto grossi (detti a guscio di noce) oppure in granuli molto piccoli (detti a chicco di riso) a seconda della quantità di siero che si vuole lasciare all’interno della pasta in funzione del formaggio che si vorrà produrre.
Bene, allora dopo avere tolto il siero, si potrà utilizzare subito la cagliata ottenuta, passando alla fase di formatura e salatura e avendo così prodotto un formaggio definito “a pasta cruda”; se invece lasciamo la cagliata nella caldaia ed iniziamo di nuovo a scaldarla portando la temperatura fino ad un massimo di circa 48 gradi avremo prodotto un formaggio “a pasta semicotta” che sarà invece “a pasta cotta” quando la cottura continuerà fino a raggiungere i circa 54 gradi.
Il casaro ha quindi un compito fondamentale ai fini della buona riuscita del formaggio e dovrà sempre sapere con esattezza prima di iniziare la fase produttiva quale tipo di formaggio vorrà ottenere. Sarà poi la stagionatura più o meno prolungata a tipicizzare in maniera definitiva il prodotto ottenuto.
Per i formaggi “a pasta filata” come le mozzarelle, i caciocavalli ed i provoloni, bisogna invece prima lasciare riposare la cagliata per alcune ore affinché si innesti un processo di demineralizzazione e poi la si deve immergere in acqua calda fino ad 80 gradi perché possa diventare filante e plasmabile.
Infine, la ricotta, che noi associamo mentalmente ai formaggi, non vi appartiene ai fini legislativi in quanto è ottenuta dalla ricottura del siero rimasto dopo la lavorazione del formaggio, anziché dal latte. Si tratta di un prodotto ricchissimo di proteine e molto povero di grassi.
Ora, però, è tempo che vi parli dei formaggi della provincia di Vicenza e dei maestri casari che li sanno sapientemente produrre e che molto spesso appartengono al gentil sesso. Questo aspetto curioso ha le sue radici nella storia e nella tradizione in quanto l’uomo doveva occuparsi dei lavori cosiddetti pesanti e la donna rimaneva invece in casa, dove, oltre ai mille lavori quotidiani, si dedicava anche alla produzione del formaggio.
Nella nostra zona, come altrove, ci troviamo di fronte a produzioni casearie molto numerose e chiamate in maniera differente, sia essa fantasiosa, relativa alla stagionatura, ecc..., ma che in questo caso classifichiamo in base alla categoria di appartenenza ed al tipo di latte impiegato. Inoltre, senza dovermi ripetere ed annoiarvi, descriverò le caratteristiche tecnologiche e produttive ad ogni prima descrizione di una determinata tipologia; cambiando poi “solamente” il tipo di latte utilizzato, mi soffermerò sulle note descrittive e gustative.

Formaggi di capra
a)Caprino fresco:
si tratta di un formaggio privo di crosta, ottenuto per coagulazione acida, spesso senza ulteriore aggiunta di caglio e caratterizzato da una consistenza soffice. La pasta ha una granulosità molto fine dovuta anche al processo di coagulazione che mantiene al suo interno una notevole quantità di siero. Il colore è bianchissimo, al naso si percepiscono sentori aciduli ed anche al palato la sensazione piacevolmente acida sovrasta quella animale che rimane molto soffusa a causa anche della freschezza di questo prodotto che va consumato nel giro di pochi giorni.
b) Caprino fresco aromatizzato: si parte dallo stesso formaggio di cui vi ho appena scritto e si aggiungono durante la lavorazione erbe o spezie aromatiche. In questo modo si “nasconde” la sensazione acidula con il flavour apportato dalle note aromatiche dell’elemento aggiunto. Si consuma fresco ed è ottimo anche su crostini come antipasto.
c) Caciotta di capra dolce: una volta ottenuta la cagliata, si procede a romperla a dimensione di guscio di noce in maniera da lasciare al suo interno anche un pò di siero ed avere così una pasta più umida e morbida. Generalmente questo formaggio va consumato nel giro di un mese e si presenta con crosta tenera, chiara e sottile, con pasta morbida dal sapore piacevolmente dolce – acidulo e soffuse note animali.
d) Caciotta di capra stagionata: qui la cagliata viene rotta a chicco di grano e successivamente posta negli stampi o nei canestri per rapprendersi prima di passare alla fase di salatura per immersione in salamoia per circa 24 ore. Matura in circa 6 mesi e si presenta con crosta liscia color ocra e con pasta compatta, a volte granulosa, dal colore leggermente paglierino e con un sapore leggermente piccante dove anche le note animali si fanno maggiormente sentire.
e) Caprino a crosta fiorita: qui ci troviamo di fronte ad una tipologia più particolare e che appartiene in maniera meno evidente alle nostre tradizioni. Si tratta di un caprino a pasta molle, caratterizzata da una spiccata proteolisi e da una maturazione centripeta, dal sapore dolce con note fungine dovute appunto alla crosta fiorita, cioè la parte esterna, comunque edibile, che è caratterizzata dallo sviluppo di muffe bianche appartenenti al ceppo del penicillium candidum o camemberti. Si tratta di muffe nobili particolarmente utilizzate in molti formaggi francesi e piemontesi. I caprini di cui sopra appartenevano a tipologie classiche prodotte in tutto il territorio vicentino mentre quest’ultimo appartiene senz’altro a tipologie emergenti per la nostra provincia e viene prodotto prevalentemente nei Colli Berici.
f) Caprino erborinato: altra tipologia di origini nobili e molto antiche, ma considerata emergente per la provincia di Vicenza. Si tratta di un formaggio che ha al suo interno muffe di colore verde – grigio che appartengono al penicillium roqueforti, cioè a quelle stesse muffe che caratterizzano i grandi formaggi erborinati, come il nostro Gorgonzola, il Roquefort francese, lo Stilton inglese ed il Cabrales spagnolo, solo per citare i più famosi.
g) Crescenza di capra: si tratta di un formaggio molto cremoso, quello che comunemente noi chiamiamo stracchino, anche se lo stracchino originale un tempo era più simile ad un taleggio stagionato che veniva prodotto con il latte di animali “stracchi” perché di ritorno dagli alpeggi. Questa crescenza è quindi molto morbida, senza crosta, con un colore bianco latte ed un sapore leggermente acidulo e molto lattico.
h) Ricotta di capra fresca: come vi accennavo prima, la ricotta è un sottoprodotto della lavorazione casearia e si ottiene quindi dopo avere estratto la cagliata dalla caldaia. Si procede ad innalzare la temperatura di cottura del siero fino ad arrivare all’incirca agli 85 gradi e a questo punto le proteine presenti nel siero si rapprendono in fiocchi e salgono in superficie dove vengono raccolti per essere sistemati negli stampini. Si tratta di un prodotto freschissimo, privo di crosta e da consumare entro 2 o 3 giorni. Anche il sapore è delicatissimo e la consistenza decisamente cremosa.
i) Ricotta di capra stagionata: la lavorazione è uguale alla precedente, ma poi si fa asciugare il prodotto curandolo costantemente per evitare lo sviluppo di muffe contaminanti fino a stagionarlo per diversi mesi. Conseguentemente a ciò, si otterrà un prodotto con pasta asciutta e friabile utilizzato per lo più come condimento di primi piatti.

Di particolare interesse per la nostra area sono i caprini prodotti nella zona del Tretto, sopra Schio dove aziende di recente costituzione hanno incominciato con successo l’allevamento di capre e la trasformazione casearia del loro latte. In questa area, anche la scelta della razza di animali da allevare è decisamente votata alla qualità: si sono infatti preferite le “Camosciate delle Alpi”, dette anche di “Razza Alpina”, cioè quelle capre con il manto marrone, più rustiche e maggiormente predisposte al pascolo, che danno un latte dalle grandi caratteristiche organolettiche e qualitative, anziché allevare capre di razza Saanen, dal pelo bianco, più stanziali e bisognose di maggiori cure, ma anche più produttive.
I produttori di caprini devono inoltre fare i conti con la natura anche per quanto riguarda il periodo di produzione: le capre, infatti, come del resto anche le pecore, hanno un periodo di lattazione che va dal mese di marzo fino a quello di novembre e poi vanno “in asciutta” per prepararsi ai parti. Un tempo era così anche per le vacche, ma ora bisogna produrre senza sosta e si è riusciti a modificare anche il loro ciclo naturale.
C’è infine da sottolineare che con il latte che ogni capra produce quotidianamente si riesce a produrre una formaggetta di circa 300 grammi. Un’altra caratteristica da non sottovalutare, infine, è la grande digeribilità che questo latte ha, aspetto che lo rende adatto anche ai bambini che smettono l’allattamento al seno materno o che sono intolleranti al lattosio.

Formaggi di pecora
a) Caciotta di pecora dolce:
prodotta generalmente in pezzatura di circa un chilo e mezzo, si presenta con crosta molto sottile e dal colore leggermente paglierino. La pasta all’interno è morbida, con un colore paglierino chiaro ed un sapore piacevolmente dolce.
b) Caciotta di pecora stagionata: di pezzatura identica alla precedente, cambia invece esteticamente, con la crosta che tende al colore ocra e la pasta, compatta e a volte leggermente friabile, che ha colore paglierino carico, con al naso note animali marcate. Ha sapore deciso con finale che ritorna dolce, a volte persino a ricordarci note di mou che spesso ricorrono nei pecorini di media stagionatura.
c) Caciotta di pecora aromatizzata: in questo formaggio si usa aggiungere del pepe oppure delle erbe aromatiche per renderlo più sfizioso.
d) Erborinato di pecora: ritorniamo a questa pregiata tipologia presente in particolare nella zona dei Colli Berici. Si presenta in piccole pezzature di circa 500 grammi, con crosta ruvida e pasta dal sapore dolce ma in piacevole contrasto con le note lievemente amarognole, piccanti e “metalliche” regalate dalle preziose muffe.
e) Ricotta di pecora: rispetto a quella caprina, questa ricotta conserva una maggiore delicatezza di sapore e va comunque consumata immediatamente.
Bisogna sottolineare che la tradizione del formaggio di pecora era diffusissima nel nostro territorio molti secoli fa. Dopo la sostituzione iniziata nell’Altopiano di Asiago, anche in pianura gli ovini si sono molto ridimensionati, soprattutto perché si erano preferiti animali più redditizi. È con l’arrivo dei pastori sardi negli anni ’60 che tale allevamento riprende e tutt’oggi le produzioni più significative sono fatte da casari di origini sarde. Ne sono una testimonianza attiva anche le tre malghe del nostro Altopiano che in estate hanno in alpeggio pecore e che sono gestite da sardi che trasformano il latte ovino in interessantissimi pecorini. Le razze di pecore più diffuse da noi sono la Massese e, chiaramente, la Sarda.

Formaggi di vacca
a) Bastardo:
questo formaggio dal nome un pochino ostile deve la sua etimologia al particolare metodo di produzione che consiste in un ibrido di lavorazione tra Asiago pressato e Asiago d’allevo. Per questo può essere consumato fresco e anche stagionato. La pezzatura della forma è all’incirca di 5 – 6 chilogrammi e si presenta con crosta rigata, particolare dovuto ai canestri dove viene riposto ad asciugare immediatamente dopo essere stato prodotto. La pasta interna è di colore paglierino carico, con consistenza compatta, ma non dura. Profumo e sapore decisi ma non aggressivi.
b) Burlino: di lavorazione identica al Bastardo, ma ottenuto con solo latte di vacche Burline. La Burlina è la razza autoctona del nostro territorio che oggi però ha rischiato addirittura di estinguersi a causa dell’invasione di vacche molto meno rustiche e molto più produttive. Ora è sotto tutela anche dalla F.A.O. e soprattutto grazie alla grande passione di un allevatore casaro vicentino può considerarsi salvata. Il latte di questa vacca è particolarmente ricco e concentrato ed il formaggio ne esce impreziosito. Al naso si avvertono piacevoli sensazioni erbacee ed animali, mentre la pasta “burrosa” avvolge completamente il palato regalandoci note animali, con un finale piacevolmente amarognolo, di pascolo montano.
c) Caciotta dolce: formaggio decisamente facile e piacevole, prodotto in pezzature piuttosto piccole, con crosta bianca se fresco, paglierino carico se più maturo. La pasta è morbida, a volte quasi cremosa ed il sapore è dolce e molto delicato.
d) Crescenza: formaggio cremoso, dal profumo di fermenti lattici e con sapore molto lattico che può avere lievi note erbacee nel periodo estivo.
e) Dolcezza di Asiago: viene prodotto esclusivamente sull’Altopiano di Asiago ed ha caratteristiche di lavorazione simili a quelle dell’Asiago pressato. Si produce solo da pochi anni e si presenta con crosta sottile e morbida, con pasta compatta e occhiatura quasi assente. Il colore è paglierino ed il sapore estremamente dolce e delicato.
f) Erborinato: sono in atto dei timidi tentativi di produzione di questa tipologia anche con latte vaccino che alternano risultati straordinari ad altri meno convincenti. Rimane tuttavia una produzione limitatissima in quanto la produzione e la maturazione di questa tipologia di prodotto è piuttosto complessa e richiede ambienti con particolari temperature ed umidità, certamente non facili da ricreare nel nostro territorio.
g) Grana Padano: formaggio senza dubbio famoso e molto importante anche economicamente. Uno dei tre formaggi a Denominazione di Origine Protetta prodotti anche nella nostra provincia e che ha bisogno di ben poche presentazioni.
h) Morlacco: le forme finite sono rotonde, con un diametro di circa 30 cm. ed un'altezza di circa 8 cm., la crosta è paglierina, tenera e striata (ciò dovuto ai canestri) e la pasta interna è molto bianca, occhiata e "burrosa" soprattutto per il Morlacco lavorato d'estate, con le mucche al pascolo in alpeggio. Da poco, questo formaggio è stato inserito nei Presidi di Slow Food, che si occuperanno della salvaguardia della tradizione ai fini di potere garantire anche una maggiore diffusione, creando così anche una migliore economia per l’area interessata e per i pochi produttori rimasti. Il nome Morlacco (o Morlàc) deriva dagli abitanti della Morlacchia, area montuosa dell'Istria e della Dalmazia. Molti secoli fa, quelle popolazioni si insediarono sul massiccio del Grappa, dove ancora oggi si concentra la maggiore produzione, portandosi anche la propria tradizione casearia.
i) Morlacco affumicato: si tratta di una produzione senz’altro di nicchia che vede il formaggio affumicato con legna di ginepro e di conifere che lo arricchiscono di profumo e sapore.
j) Morlacco stagionato nella creta: altra produzione rarissima che prevede la stagionatura del formaggio chiuso dentro alla creta e messo sotto cenere. Così facendo, il Morlacco matura conservando anche i suoi stessi “umori” e ne esce molto arricchito, ma anche più “odoroso”. Si tratta di un prodotto per autentici buongustai.
k) Mascarpone: si ottiene dalla panna vaccina di affioramento o centrifugata, riscaldata a 90°C. Raggiunta la temperatura, si aggiunge succo di limone o aceto bianco (acido citrico o acetico) e in 10 minuti si ottiene una pasta cremosa che ha solo bisogno di riposare in frigorifero per circa 18 ore. La semplicità d'uso invita a provare in casa. Il mascarpone ha avuto origine in Lombardia, nel Lodigiano, probabilmente dopo numerosi tentativi fatti dai contadini per riuscire in qualche modo a sfruttare le eccedenze di burro o di panna troppo acida. L'etimologia del nome Mascarpone ha due possibili spiegazioni: una, piuttosto fantasiosa, la collega al passaggio in Lombardia di un Governatore spagnolo del 1200 che, dopo avere assaggiato il formaggio, esclamò: "IMas que bueno!", (Più che buono!) L'altra ipotesi invece, sicuramente più credibile, collega il nome alla parola "mascarpa" o "mascherpa", che nel dialetto lombardo indica la ricotta, simile nel colore e nella consistenza.
l) Mozzarella: esistono anche nel nostro territorio alcune aziende che si sono dedicate alla lavorazione di questo prodotto dalle chiare origini meridionali. E non è quindi un caso se a capo di queste unità produttive ci sono soprattutto persone emigrate fin qui. La produzione è fatta bene, ma le mozzarelle del Sud Italia, vaccine o bufaline sono un’altra cosa...
m) Provolone Valpadana: si tratta di un formaggio prodotto in quantità enormi da grandissimi caseifici industriali. È un prodotto a Denominazione di Origine Protetta, la cui area di produzione delimitata per legge arriva fino alla nostra provincia. Viene lavorato a pasta filata ed il suo sapore è dolce da fresco mentre può diventare decisamente piccante se stagionato. È sicuramente un formaggio di origini meridionali, arrivato nella Pianura Padana solamente perché un tempo c’erano maggiori quantità di latte da lavorare. Personalmente, nonostante abbia la D.O.P. non mi pare ci siano forti legami con il nostro territorio.
n) Ricotta: in questo caso può essere la razza della vacca a fare la differenza. Fate un assaggio comparato di una ricotta ottenuta dal siero di latte di Frisona con una ottenuta da quello di Burlina e rimarrete piacevolmente sconvolti dalla diversità qualitativa assolutamente inaspettata. Attenzione al prodotto industriale che spesso contiene un’aggiunta di panna per renderlo più saporito; certo, non è veleno, ma se cercate un prodotto magro e rispettoso delle sue origini, qui non ci siamo proprio.
o) Ricotta affumicata: questa tecnica si utilizzava soprattutto per conservare nel tempo la ricotta altrimenti molto deperibile. Ottima servita anche con un filo d’olio extravergine di oliva.
p) Scamorza: vale quanto detto per le mozzarelle, ma in questo caso il formaggio viene anche stagionato oppure affumicato.
q) Tosella: una volta portato il latte intero a circa 40 gradi, si aggiunge un pò di caglio in polvere. Ottenuta la cagliata, la massa viene riposta in stampi rettangolari e dopo poche ore è pronta per il consumo. Si utilizza prevalentemente cotta in padella con un pò di burro e sale e viene prodotta soprattutto nelle zone montane.
r) Stracchino: semplicemente il nostro modo di chiamare la Crescenza.
s) Asiago D.O.P.: per ultimo, un sicuro vanto della produzione casearia veneta. Il formaggio Asiago è, senza alcun dubbio, quello più diffuso e più consumato nella nostra zona e, per conoscerlo meglio, è importante fin d'ora dividere questo formaggio nelle due tipologie in cui viene prodotto: Asiago pressato (dolce) e Asiago d'allevo (stagionato), per descriverne poi le relative caratteristiche. Asiago pressato: è prodotto con latte intero, ottenuto da mucche di razza Pezzata nera e Bruna Italiana. Viene lavorato a pasta semicotta e durante la prima cottura del latte a 35°C si aggiungono fermenti specifici e caglio liquido. Ottenuta la cagliata, si procede a liberarla dal siero ed a romperla a dimensione di un guscio di noce, quindi, si cuoce nuovamente a 45°C circa. Dopo queste operazioni, si esegue una prima salatura a secco e si ripone la pasta in appositi stampi a pareti forate, dove viene pressata con il torchio per circa 4 ore. A questo punto, le forme vengono avvolte lateralmente con delle fascere di plastica, che imprimono il marchio Asiago attorno a tutta la forma e vengono messe in un locale, chiamato "frescura", per 2-3 giorni ad asciugare. Si tolgono le fascere per eseguire l'ultima salatura mediante un bagno in salamoia per altri 2 giorni ed infine si mettono le forme a maturare per un periodo di 20-40 giorni. Il formaggio finito si presenta con forma cilindrica dal diametro di 30-40 cm e l'altezza di circa 15 cm. Il peso medio di una forma è di 11-15 kg. La crosta è sottile ed elastica; la pasta interna è morbida, burrosa, di colore bianco o leggermente paglierino e con occhiatura irregolare. Il sapore dolce e delicato, ricorda la panna ed il latte appena munto. Ottimo come formaggio da tavola, ma si presta egregiamente anche ad usi di cucina. Le origini di questo tipo di Asiago sono del nostro secolo e, grazie alla trasformazione dei gusti del consumatore moderno, è un formaggio che ha raggiunto una fama ed una quantità di produzione notevoli ed in continua crescita.
Asiago d’allevo: viene lavorato a pasta semicotta, con latte vaccino proveniente da due mungiture, mattutina e serale, di cui una scremata per affioramento naturale. Per questo tipo di Asiago, la cagliata viene rotta con lo "spino" o con la "lira" fino a raggiungere la dimensione di un chicco di riso e, successivamente, cotta altre due volte prima a 40°C e poi a 47°C. Dopo il passaggio nelle fascere che imprimono il marchio D.O.C., viene salato in leggera salamoia e messo a stagionare.
La durata della stagionatura, darà luogo alla denominazione di vendita: Asiago mezzano, stagionato per 3-8 mesi; Asiago vecchio, stagionato per 9-18 mesi; Asiago stravecchio, stagionato per 2 anni o più. Il prodotto finito, ha forma cilindrica con 30-35 cm di diametro e circa 10 cm di altezza; il peso di ogni forma varia dagli 8 ai 12 chilogrammi. La crosta è sottile ma dura, liscia e regolare, di colore ambrato nel "mezzano" e bruno nel "vecchio" e "stravecchio". Anche la pasta interna ed il sapore sono molto diversi a seconda della stagionatura e meritano quindi descrizioni separate.
Asiago mezzano: la pasta è compatta, anche se ancora morbida, di colore paglierino, con occhiatura di piccola e media grandezza, il sapore è marcato, con sentori erbacei ma ancora dolce.
Asiago vecchio: pasta dura, compatta, di colore paglierino, con occhiatura media e sapore deciso, tendente al piccante.
Asiago stravecchio: pasta molto dura, granulosa, di colore paglierino, con occhiatura abbastanza piccola. Il sapore è intenso, avvolgente, penetrante.
Asiago stravecchio di malga: splendida realtà estiva, frutto delle malghe dell’altopiano di Asiago, si presenta con colore paglierino molto carico, oserei dire quasi giallo oro a testimonianza dell’alimentazione al pascolo delle vacche. Il profumo è intenso, di pascolo, la pasta molto “burrosa” ed il sapore piacevolmente piccantino.
Asiago stravecchio al Torcolato: metodologia antica di conservazione del formaggio, ma sicuramente “nuova” per il nostro territorio, dove si è iniziato da pochi anni a magnificare il migliore Asiago di malga con le vinacce di Torcolato, il vino passito simbolo enologico della D.O.C. Breganze, famoso oramai in tutto il mondo.
Cenni storico legislativi sul formaggio Asiago: con l’aumento della produzione e con l'intensificarsi degli scambi commerciali, si rese necessario dare al formaggio il nome del luogo di origine, da cui la denominazione "formaggio Asiago". Nel 1955, l’Asiago ottenne la Denominazione Tipica e, successivamente, con il D.P.R. del 21 dicembre 1978, la Denominazione di Origine Controllata trasformata oggi in Denominazione di Origine Protetta.
Nel 1979, nacque il "Consorzio per la tutela del formaggio Asiago", creato da 56 caseifici sociali per salvaguardare le caratteristiche della produzione casearia, con lo scopo di perfezionare qualitativamente e quantitativamente il formaggio, di promuoverlo commercialmente e di vigilare sul corretto uso delle denominazioni, dei contrassegni e dei marchi consortili, gestendo le eventuali azioni giudiziarie per reprimere abusi e irregolarità. Oggi, il Consorzio per la tutela del formaggio Asiago, conta 14 soci stagionatori e 66 soci produttori.

Miei cari appassionati del mondo caseario, spero che questa mia relazione, sicuramente incompleta (in quanto ogni giorno ogni casaro sarà capace di migliorarsi e di inventare qualcos’altro di nuovo e di straordinariamente buono), possa contribuire non solo ad accrescere la vostra conoscenza del comparto, ma anche a stimolare i vostri amici, Accademici Italiani della Cucina e non, a mangiare con più attenzione e più rispetto questo magnifico prodotto, dono della natura e della sapienza dell’uomo, contribuendo così a ridare la dignità a tutte quelle persone che si occupano di vacche, di capre e di pecore con tanto amore e sacrificio, che sono inoltre i garanti della salvaguardia del nostro territorio e delle nostre tradizioni, ed ai quali noi dobbiamo sicuramente un grande grazie.

Buon formaggio a tutti!

Erasmo Gastaldello
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